(rfg) Il segnale è arrivato forte e chiaro dal Vinitaly: se gli Stati Uniti alzano muri commerciali, l’Italia non può far altro che guardare altrove. Secondo un’indagine condotta da Euronews durante la fiera veronese, il 50% delle cantine presenti si sta già orientando verso nuovi mercati, soprattutto in Asia e America Latina, per aggirare gli effetti dei dazi annunciati da Donald J. Trump (nella foto @Politico).

Le tariffe del 25% imposte dalla nuova amministrazione USA sulle importazioni di vino europeo sono un colpo durissimo per l’Italia, primo esportatore mondiale. Il nostro Paese rischia di perdere fino a 323 milioni di euro all’anno che riguarda 480 milioni di bottiglie spedite oltreoceano, considerando il peso dell’export vinicolo verso gli USA, che da solo vale 1,6 miliardi di euro.

Vinitaly, la diplomazia del vino

Dietro le quinte dei padiglioni di Vinitaly, l’atmosfera è mista tra preoccupazione e pragmatismo. “Ci stiamo già preparando a rafforzare la nostra presenza in Corea del Sud, Giappone e Canada” – spiega un export manager di una cantina toscana. Una strategia di diversificazione che diventa vitale anche per i piccoli produttori, che rischiano di essere tagliati fuori da un mercato dove già i costi logistici e promozionali sono alti.

L’impatto, però, non riguarda solo le imprese: a rischio c’è un intero comparto simbolo del made in Italy. Dalle etichette più blasonate alle cooperative del Sud, il mondo del vino italiano ha costruito negli ultimi decenni una relazione solida con i consumatori americani, diventati i principali clienti per il vino tricolore.

Per il segretario generale di Uiv, Paolo Castelletti, “rispetto ai partner europei, l’Italia presenta due principali fattori di rischio: da una parte la maggiore esposizione netta sul mercato statunitense, pari al 24% del valore totale dell’export contro il 20% della Francia e l’11% della Spagna. Dall’altra, una lista di prodotti più sensibili su questo mercato, sia in termini di esposizione, che di prezzo medio a scaffale: solo il 2% delle bottiglie tricolori vendute in America vanta un price point da vino di lusso, mentre l’80% si concentra nelle fasce “popular”, che tradotto in prezzo/partenza significa in media poco più di 4 euro al litro”.

Un patto di filiera, tra produttori italiani (leader in Usa) dunque, quello proposto da Unione Italiana Vini, al trade americano, che era presente in massa al Vinitaly 2025 con una delegazione di 3.000 operatori e 120 top (10% del contingente totale del piano di incoming) selezionati, invitati e ospitati da Veronafiere e ICE, provenienti prevalentemente da Texas, Midwest, California, Florida e New York.

“La presenza degli operatori statunitensi è una notizia incoraggiante per le aziende e per Vinitaly – commenta Adolfo Rebughini, dg Veronafiere – si apre uno scenario incerto che impatterà sulla geografia del nostro export. Condividiamo le preoccupazioni del settore e per questo mettiamo a disposizione delle organizzazioni la piattaforma di Vinitaly per facilitare eventuali accordi diretti tra imprese, associazioni italiane e importatori-distributori del nostro primo mercato di destinazione extra Ue”.

Vinitaly, l’industria reagisce

Le reazioni del settore sono state immediate. Il presidente di Federvini, Micaela Pallini, ha parlato di “una misura punitiva e discriminatoria che rischia di danneggiare un intero ecosistema produttivo”. Anche Coldiretti è intervenuta, chiedendo al governo italiano e all’Unione Europea di attivarsi per evitare l’imposizione di dazi generalizzati che colpiscano indiscriminatamente eccellenze agroalimentari.

In realtà, quella tra l’amministrazione Trump e il vino europeo è una partita già vista. Nel 2019, un primo round di dazi – seppur temporaneo – aveva già penalizzato pesantemente l’export italiano. Ora il rischio è che, in un contesto geopolitico ancora più instabile, le barriere commerciali diventino lo strumento per colpire non solo competitor economici, ma anche alleati strategici.

La risposta italiana, dunque, non sarà solo politica, ma anche commerciale. Più investimenti su mercati emergenti, maggiore promozione digitale, ma soprattutto un cambio di paradigma: “Dobbiamo diventare meno dipendenti dagli USA – afferma un rappresentante dell’ICE – e più presenti in paesi come India e Vietnam, dove la domanda è in crescita e la concorrenza ancora contenuta”.