(di Beppe Giuliano) Premessa: ad oggi nessuno sa dire quando finirà questo periodo sospeso in cui la precedenza va – d’obbligo – a chi sta male e a chi, con turni massacranti, sta confermando il proprio giuramento d’Ippocrate. Quindi, nessuno oggi può dire se a giugno l’economia sarà ripartita, oppure no. Se potremo muoverci liberamente, oppure no. Se, per venire a noi, andremo al Vinitaly, oppure no.
Sappiamo – per restare al mondo del vino che è pur sempre una baracca che muove una dozzina di miliardi di euro l’anno e che ha una bilancia commerciale clamorosamente attiva – quello che abbiamo già registrato: Prowein che salta a stand già allestiti (scaricando i costi sui vignaioli, ma preservando le sue più remunerative fiere quadriennali in arrivo); un coro, più o meno diffuso e rappresentativo, di vignaioli ed associazioni imprenditoriali che chiedono di rimandare al 2021 la rassegna scaligera, cui si sono aggiunti – un po’ sciacallamente – gli inglesi che annunciano che si terrà comunque a Londra il primo evento del vino del 2020, magari l’unico. Chiacchiere sul nulla, si potrebbe osservare, perché se Covid-19 si dimostra ragazzo di tempra, a giugno avremo ben altre preoccupazioni per la mente.
Sperando però di fottere quanto prima il bastardello, parliamo del prossimo Vinitaly. Lo faccio perché lo frequento da una trentina d’anni, ho visto un bel po’ di rassegne competitor in Europa, e non ho interessi di bottega da difendere. E soprattutto perché un po’ delle chiacchere di questi ultimi giorni mi hanno fatto girare le scatole. Metto quindi subito da parte le dichiarazioni “nobili”: da un lato le preoccupazioni di chi si trova coi lavori di campagna e un budget da confermare in presenza di un evento fieristico ricco di incognite; dall’altro chi sostiene che proprio da un Vinitaly ricco di incognite può ripartire non soltanto il vino, ma l’intero Paese.
Covid-19 è però il virus della verità come dice benissimo il professor Luttwak. Perché porta clamorosamente alla luce punti di forza e le debolezze; dichiarazioni di nobili principi e meschini interessi di parte. Lo fa con gli Stati e lo fa col business. E il mondo del vino è business. Dove si combatte per piazzare una paletta di bottiglie, dove si cerca, si vuole, si pretende (e si è ottenuto) il massimo supporto pubblico ad ogni piè sospinto. E dove anche si cercano, proprio per fare più business, posizioni “politiche” di visibilità per poter condizionare i decisori pubblici, le organizzazioni fieristiche, impressionare gli importatori, i giornalisti ecc ecc Anche nel vino, di vestali indipendenti e naturali ne girano poche. Perché è business, e senza quello tutto il resto – la poesia, le degustazioni, l’Arcadia dei vigneti … – sarebbe scomparso da un pezzo.
Un mondo vitale, bizzarro…Dove è legittimo non partecipare ad una fiera, ma lo è fare business utilizzando le occasioni che questa fiera genera, organizzando – ad esempio – un’altra manifestazione o salone in contemporanea ed a pochi chilometri di distanza (provate a farlo a Dusseldorf, vediamo quanti minuti vi concedono prima di mandarvi all’aria). Dove l’erba della fiera del vicino è sempre più verde. Dove è facile scordare come eravamo nel 1986 quando alcuni vignaioli (e non le fiere) stavano affossando tutto il sistema agroalimentare italiano che ha nel vino una evidente bandiera.
Dove si può dire – e ci mancherebbe altro – che i soldi spesi per il prossimo Vinitaly potrebbero venir impiegati meglio andando, una volta finita la buriana, a parlare personalmente coi propri buyer scordando che trenta, vent’anni fa quei buyer sono stati trovati proprio al Vinitaly e che se oggi ci sono i “brand” è sì grazie all’ottimo vino, ma anche al fatto che qualcuno ha creato dal nulla una delle condizioni basiche per emergere: poterlo metter il vino in mostra in una cornice prima inesistente.
Dire oggi che il Prowein è più “serio” di Verona – aspettiamo di vedere i bonifico dei rimborsi – vuol dire non considerare anni di concorrenza sleale fatta dal sistema fieristico tedesco nei confronti di quello italiano, concorrenza a suon di centinaia di milioni di euro, veri aiuti di Stato mascherati dalla geografia amministrativa della Repubblica federale. Date a Verona (o dateli a Milano se è questo che alla fine vuole realmente una parte del sistema vino o della politica che ci gira attorno) i capitali che ha Dusseldorf e poi ne riparliamo.
Certo, non ritengo il Vinitaly perfetto. Ma prima volevate il pubblico; poi soltanto gli operatori; poi i buyer Usa; poi quelli cinesi; poi volevate la politica; poi il Governo, poi le opposizioni poi…poi tutto quello che avete chiesto, bene o male, prima o poi è arrivato.
Non potete però chiedere però al Vinitaly di suicidarsi, di consegnare il sistema italiano del vino ai tedeschi, così come non potete chiedere di avere la promozione gratis, oppure di avere la vostra fiera a Milano che vi viene più comoda e magari ci fate due euro di consulenza…
Volete andare da soli sui mercati, senza passare dal Vinitaly? Questa è una libertà che potete sempre cogliere. Ma sapete benissimo che questa possibilità, all’80% dei partecipanti al Vinitaly, è nei fatti preclusa. Per mille ragioni: dimensioni, competenza, disponibilità di capitali ecc ecc.
Insomma, Covid-19 smaschera anche una certa qual ingratitudine, un modo molto levantino di cercare di guadagnare anche nelle disgrazie, di risparmiare oggi il “nostro” per avere domani di più dal “vostro”…
Vinitaly avrà mille colpe, ma se i suoi vertici hanno deciso di rinviarlo e non di spostarlo al 2021 è anche perché il mondo del vino questo ha chiesto. Magari non si farà a giugno, Covid-19 è ragazzo tosto, ma su quella data c’erano tutti al momento di decidere. Quello che arriverà, sperando che arrivi perché vorrà dire che saremo vivi e vegeti, sarà ovviamente un Vinitaly diverso, eccezionale perché figlio di un periodo eccezionale, e ovviamente per vederlo funzionare al meglio non potrà che essere riprogettato e riorganizzato insieme a vignaioli, governo, istituzioni, consorzi e chi più ne ha più ne metta. Perché se deve rilanciare il sistema Italia non potrà che coinvolgere tutti. Così è stato detto e non si capisce perché così non debba essere.
Quindi: legittimo cambiare idea; legittimo percorrere la propria strada. Fare passare questo come un beneficio a vantaggio di tutti è, però, un altro paio di maniche.