(b.g.) Lo scenario è drammatico e la pandemia ha messo in luce i punti di debolezza del mondo del vino: difficoltà nel creare valore; eccesso di produttori ( oggi in larga parte piccoli o piccolissimi con limiti gestionali e prospettive di mercato incerte sino ad oggi celate da una domanda complessivamente ampia); eccesso di denominazioni italiane, alcune poco o per niente sfruttate; eccesso di personalismi che rendono difficile costruire alleanze e collaborazioni; scarso potere dei produttori nei confronti della distribuzione organizzata; attività di lobbying concentrata sul breve termine…l’elenco potrebbe continuare. La prossima vendemmia amplierà e non ridurrà i problemi, aggiungendo prodotto da vendere a magazzini già saturi a fronte di una domanda che, anche ipotizzando un’estate stellare, resterà debole perché la voglia di investire, quando c’è, resta condizionata dalla liquidità che nell’economia nazionale ancora non c’è.
Basta e avanza per essere pessimisti. Oppure no. Per Ettore Nicoletto, ceo di Bertani Domains e presidente del Consorzio del Lugana, questo sarebbe invece il momento giusto per prendere di petto la situazione e riprogettare il futuro del vino italiano, un programma concreto, tarato su un lasso ragionevole di tempo – orizzonte 2030, non più in là – per fare non mille, ma otto, dieci cose, per tramutare la crisi in opportunità. Il messaggio, l’invito a fare squadra, ai “volenterosi” è stato lanciato con un video postato su Linkedin.
Un programma non da fare da solo, ovviamente, ma neppure affidandosi a pletoriche assemblee generali: «No, non è più il tempo di grandi assisi. Adesso è il tempo dell’operatività, della concretezza. Dobbiamo mettere a disposizione del nostro mondo un pacchetto di otto, dieci idee concrete, realizzabili, che ci aiutino tutti a percorrere un nuovo cammino di crescita, che riportino valore nella nostra filiera, che ci facciano uscire dai limiti attuali. Non voglio sostituirmi a nessuno: in vita mia ho dato prova di essere uomo che cerca e vuole il gioco di squadra, che ha fatto vita associativa, che ha costituto consorzi e gruppi di lavoro superando le mere logiche d’impresa. Non voglio nemmeno fare il fenomeno: sono conscio delle difficoltà, ma credo che un gruppo di volenterosi abbia adesso l’opportunità di mettere a disposizione di tutti le proprie esperienze e di contribuire a tracciare una nuova rotta».
Partiamo dai “volenterosi”: chi saranno?
«Imprenditori, manager, professionisti del settore. Gente con la voglia di mettersi in gioco per il bene comune. Per questo non penso a riunioni in luoghi fisici targhettizzati, non ci deve essere alcun cappello. E sarebbe ideale poter contare su una società di ricerca in grado di dare informazioni aggiornate e dettagliate sui mercati del vino. Attenzione, mercati non vuol dire esclusivamente l’export: dobbiamo tornare a presidiare bene il mercato italiano che resta uno dei principali al mondo e dove oggi si combatte ferocemente per restare a galla».
Sandro Boscaini ha parlato recentemente della necessità di sfoltire il grande albero delle denominazioni italiane?
«E ha ragione. Ci sono denominazioni che non hanno seguito neppure fra i produttori del posto. Che non aiutano a far crescere il valore del vino italiano nel suo complesso, ma soltanto a renderlo irriconoscibile. Questo per me non vuol dire buttare a mare tutte le realtà più piccole o non impegnarsi a valorizzare vitigni interessanti: ma bisogna fare delle scelte ed avere piani d’azione conseguenti».
Questa crisi farà selezione, molte delle realtà più piccole rischiano di venir escluse a breve dal mercato. Non è l’ora di parlare senza remore di politiche che favoriscano soglie dimensionali adeguate al mercato globale?
«Il problema c’è e dobbiamo trovare la strada per favorire una nuova fase di sviluppo. Stanno scendendo i prezzi dei vigneti, il valore delle uve idem. Non ci può essere una corsa al ribasso nel momento in cui accedere ai mercati diventa sempre più complesso».
E’ finita anche la stagione del vino come diversificazione d’investimento o come divertissement per celebrità sull’onda dello straordinario boom degli ultimi anni?
«Penso sia finita la fase dell’improvvisazione. In realtà il mondo del vino ha bisogno di contaminazioni, di esperienze imprenditoriali e manageriali esterne che apportino visioni nuove. Da settori “vicini” come il luxury, ma anche dall’industria vera e propria. Non è il momento di chiudersi, ma di acquisire competenze».
In autunno si faranno i conti dell’annata. E si tornerà a parlare di aiuti pubblici al settore, come la distillazione. Che ne pensa?
«Che la distillazione favorisce un modo sbagliato di vedere il mondo del vino, quello della sovraproduzione a scapito della qualità. Premierà chi ha prodotto di più e non aiuterà quelle realtà che hanno intrapreso la strada del valore. Guardi che non è un problema da poco e non si riassume più nella storica sfida fra Italia e Francia. Oggi anche l’Australia registra prezzi medi più alti di quelli italiani. Questa tendenza va invertita e in fretta. Altrimenti il sistema non reggerà. Non sfruttiamo adeguatamente il nostro potenziale, dobbiamo agire ora».
Il sistema dell’economia italiana – non soltanto il mondo del vino – è frammentato in mille specificità, in tante associazioni, in tanti interessi assai spesso in competizione fra loro. Cosa le fa pensare che questa volta sarà diverso? Che accoglieranno positivamente la road-map dei volenterosi?
«Questa crisi ci ha forzato a riflettere. Credo che l’urgenza di cambiare paradigma sia avvertita da tanti se non da tutti. Non voglio imporre nulla, come potrei farlo? Mi piace pensare che possiamo tradurre le comuni riflessioni in un percorso che aiuti chi ha responsabilità comuni, in modo particolare i decisori politici, a trovare le soluzioni migliori per il nostro mondo. Soluzioni concrete, non un libro dei sogni, che in dieci anni possano portare a dei risultati. Utili per noi operatori, utili per il Paese. Rimbocchiamoci le maniche e proviamo a costruire qualcosa».